giovedì 14 novembre 2013

Il 'distacco' buddista nell'Hek Ki Boen (seconda parte)

Nel Buddismo Chan si dice: "Vivi ogni respiro e ogni istante come se fosse l'ultimo della tua vita", perché solo così si può assaporarlo interamente e coglierne l'intima essenza. Ecco allora che l'avversario è un mezzo e quello che conta non è vincerlo, ma quello che succede "mentre" si combatte. Per questo ci si inchina all'avversario, riconoscendo il servizio che sta svolgendo e l'occasione che fornisce. 

Se è chiaro quanto detto sul  'distacco' buddista, l'Arte Marziale in un monastero ci sta più che bene, ma occorre allontanarsi dalla visione idilliaca dei monaci che nutrono gli uccellini e si inseguono giocosi nei chiostri. Il monaco buddista è, prima di tutto, un essere con una grande determinazione: un guerriero, a tutti gli effetti. Una sessione di meditazione Chan a volte è una forma, in cui ogni minimo dettaglio è essenziale e deriva da un'attitudine del corpo, della mente e dello spirito, altre volte un combattimento, quando la mente si ribella, le emozioni impazzano, il corpo urla...questo in origine. Poi, però, come ci sono pittori commerciali, ci sono guerrieri "funzionali", più o meno orientati all'obiettivo esterno. Anche i samurai hanno abbracciato lo Zen (cioè Chan in giapponese) come mezzo per aumentare l'efficacia, ben più che come strumento di elevazione spirituale. Questo però non riguarda l'Arte, ma l'uso che si sceglie di farne.

L'Hek Ki Boen si sposa benissimo con il concetto esposto, perché dà una indicazione assolutamente pratica, dalla quale fa discendere la teoria, non il contrario. Non ci sono teorie o concetti fumosi, ma è la pratica esperienziale stessa che ne determina l'efficacia e ne fa discendere il principio. Tutto ciò che si può dire del Chan e tutto ciò se ne può cogliere non ha niente a che vedere con la sua realtà intrinseca, esattamente come con l'HKB. Ne possiamo parlare, lo possiamo descrivere e spiegare, ma solo la pratica chiarisce il contenuto, perché il contenuto è la pratica stessa.

Credo sia bene chiarire, però, da dove derivi questo tipo di Buddismo. La Tradizione racconta che il Buddha storico, dopo aver predicato Vie diverse, in modo che ciascun essere umano potesse trovare quella adatta a lui, ne comunicò una all'orecchio del suo discepolo prediletto e solo a lui. Questo, a sua volta, la comunicò nello stesso modo, quando fu il suo turno, a uno solo dei suoi discepoli e così di seguito fino ad arrivare a Bodhidharma. Questi, come monaco errante, dall'India raggiunse la Cina, dove il suo insegnamento, fondendosi con la tradizione taoista preesistente, diede origine al Chan (che è la traslitterazione dell'originale termine indiano Dhyana). Allo stesso modo, quando il Chan venne importato in Giappone, ad opera di alcuni monaci della setta Tendai, fondendosi con la cultura e la tradizione preesistente, diede origine allo Zen (a sua volta traslitterazione del termine cinese Chan).

Dhyana, Chan e Zen sono solo "vestiti culturali" per quell'unica Via, nuda, semplice e senza forma. Non bisogna confondere le forme apparenti e intelligibili con il nocciolo, cioè la forma con la sostanza. Si tratta di nocciolo che non ha nulla a che vedere con tutto quello che se ne può dire, ma può solo essere sperimentato in prima persona. Per arrivare a sperimentare in prima persona occorre una pratica e la pratica ha le sue regole, che sono da intendersi in modo puramente funzionale. Quelle Zen sono funzionali al contesto culturale giapponese, quelle Dhyana al contesto indiano, etc. Questo non vuol dire che lo Zen sia adatto solo ai giapponesi: è adatto a chiunque si senta in sintonia con quel contesto.

Quello che è certo è che ogni Via, compresa quella Buddista Chan, come qualsiasi altra Via, non può essere adattato a piacere, non perché se lo cambi non funziona più, ma perché se lo cambi non è più quella! Per questo bisogna avere profondo rispetto per chi pratica altre Vie, proprio in funzione del raggiungimento di un obiettivo, comune, che è il cammino stesso. Va detto, comunque, che anche all'interno delle tradizioni filosofiche e religiose ci sono visioni più o meno rigide e approcci più o meno formali.

Come in ogni Arte, ogni Istruttore o Maestro non può non mettere se stesso nell'insegnamento che impartisce e questo inevitabilmente crea differenze nel modo di insegnare, ma quello che fa dell'Hek Ki Boen un sistema fantastico è che il nocciolo rimane sempre quello, compresa la Via per raggiungerlo, anche se può cambiare qualcosa in seno al modo di spiegare il percorso da fare. Ci possono essere strade diverse per arrivare, ma non la meta.

Immaginate di dover spiegare a una persona che non è mai stata innamorata cosa sia l'amore! Tutto quello che potete fare è trovare il mezzo per far innamorare la persona, ma per far questo, ognuno non potrà che fare riferimento alla propria esperienza e si verranno così a creare una quantità di vie apparentemente diverse, ma che in realtà puntano a un unico risultato. Così il Maestro Chan (ricordiamo che il termine Maestro è usato come forma di rispetto dagli Allievi, ma non indica un ruolo, tant'è che più spesso si parla di Patriarchi Chan), non è uno che ti racconta "la verità". Non è uno che ti dice come stanno "veramente" le cose. Al contrario, è uno che si preoccupa:
a) di insegnarti una tecnica in tutte le sue sfumature e di metterti in grado di eseguirla bene
b) di impedire che tu ti fermi su una stazione intermedia pensando che quella sia la meta ultima
c) di sostenerti strada facendo

Questo è il motivo per cui un Maestro è necessario nella pratica, come in qualsiasi altra Arte, ma come in qualsiasi altra Arte, il Maestro ti indica la strada e ti aiuta a capire come rinforzare le gambe per percorrerla, ma poi non ti porta in spalla fino alla meta! Questo è il motivo per cui il Maestro va sempre seguito, ascoltato e guardato per capire i particolari della pratica, ma non si può prescindere dalla pratica personale per raggiungere la meta.

In merito ai vari "distacchi" che l'Hek Ki Boen insegna, c'è quello, per esempio, dal respiro. Chiaramente il respiro può contribuire alla forza propulsiva per muoversi rapidamente, scaricando il peso dei colpi e senza sforzo, ma solo dopo che si sarà fatta l'esperienza del distacco dal respiro stesso. Durante la pratica è la respirazione addominale quella su cui poniamo di più l'accento, talvolta nella variante cosiddetta 'naturale' o nell'altra, inversa.

Se impariamo ad utilizzare la forza del respiro, intesa proprio come  un propulsore pneumatico, è chiaro che miglioriamo il rendimento delle nostre azioni, ma ad uno stadio iniziale è fondamentale non connettere il ritmo del respiro al movimento del corpo, per permettere ad entrambe (azione respiratoria ed azione corporea esterna) di lavorare separatamente, in maniera tale da avere più elasticità, dinamicità e peso, senza dover far per forza riferimento alla connessione dei due.

Continua...

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