sabato 22 dicembre 2012

Confusione nel mondo del Wing Chun. Dubbi sul concetto di autodifesa

Ospito con il solito orgoglio le riflessioni del mio ToDai Pasquale "Guido" Mazzotta. Spero che possa essere uno spunto per l'autocritica da parte di tutti.

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Prendo spunto per il presente articolo da una discussione portata avanti su facebook sulle discipline tradizionali. Poiché i miei interlocutori sono interessati all'aspetto autodifesa, e seguono pertanto metodi moderni volti a garantirla o, se non altro, permetterla nei limiti del possibile, può apparire chiara la piega presa dalla discussione. 

Benché io abbia già trattato il tema su queste pagine, probabilmente il parlarne con loro ha fatto emergere nuovi sviluppi. Come sempre conversare è un buon modo per approfondire ciò che si fa e ciò che si cerca. Nel susseguirsi della discussione, mi si è fatto notare come nelle arti tradizionali, in particolare "nel wing chun nei forum, i praticanti ti dicano tutto e il contrario di tutto". Vero. 

La prima cosa che mi verrebbe voglia di rispondere è che la democratizzazione della conversazione ha portato chiunque a parlare di ciò che non solo non sa, ma non ha mai praticato, mettendo gente impreparata al pari di gente esperta. Certamente sui forum di discussione si dovrebbe essere tutti solo utenti. Tuttavia la persona ignara che legge non riesce in alcun modo a fare dei distinguo, prestando praticamente fede a tutto quello che viene scritto da tutti, cioè sia una cosa che il suo contrario. 

L'ignaro lettore non può così farsi alcuna idea di quello che il wing chun sia, prendendolo dunque come un'accozzaglia di principi e tecniche senza capo né coda. Non a caso suggerivo di seguire solo un parere, quello che sembra più ragionevole (che assolutamente non deve per forza essere il mio), riservandosi poi la possibilità di correggere il tiro man mano, possibilmente in base anche ad esperienze reali o attraverso la pura sperimentazione personale. 

Una delle domande per capire in cosa questa benedetta/maledetta arte consista è stata: "Cosa faresti se un pugile ti mitragliasse?". Una domanda del genere che risposta potrebbe mai avere? Ma soprattutto questa domanda la faremmo a un praticante di thai boxe? E che risposta penseremmo di avere? Una combinazione classica da studio ai pao? Perché in entrambi i casi se si viene aggrediti da un pugile (o da un pinco pallino qualunque, perché in strada mica lo sappiamo se chi abbiamo di fronte è un pugile o un campione di judo o di scala 40) o si fugge o si combatte, in mancanza d'armi, con pugni, calci e atterramenti. Quindi da questo punto di vista il wing chun è un'arte marziale come un'altra. Non esistono risposte preconfezionate in nessuna disciplina. 

Chi offre delle risposte in tal senso (per esempio rispondendo che al pugile che incontri per strada rispondi sempre e comunque coi calci frontali e i mitici pugni a catena) è chiaro che mente e che chi crede a una cosa tanto stupida sarà il primo a diventare allievo di insegnanti senza scrupolo e, soprattutto, senz'arte. La verità è che è evidente che i principi che vengono sbandierati come wing chun quasi mai corrispondano a ciò che si fa in pratica, e questo dovrebbe mettere una persona attenta già in allarme. Mentre è evidente la ragione per cui alcuni insegnanti insegnano in questo modo (esclusivamente per il ritorno economico), è sconcertante vedere degli allievi che non si fanno mai domande e, anzi, difendono i loro SiFu a spada tratta come se veramente fossero un genitore, salvo che poi, forse un giorno rinsavendo, non si sentono mai stupidi per esserci cascati, ma semplicemente dicono che il wing chun non funziona o, nel caso migliore, dicono che le idee sono buone, ma sono già realizzate altrove, nella fattispecie negli sport da combattimento.

La differenza è che prima c'era un SiFu che pensava per lui, magari per spillare un po' di soldi, e ora c'è un coach che è un po' più onesto (forse) e dico onesto sperando che questa parola abbia per tutti il medesimo significato. Non scendo in altri discorsi più di natura tecnica. Quello che voglio dire è che difendersi per strada non significa prepararsi contro il pugile o il judoka che ci potrebbero capitare. 

Questa era la moda di un certo wing tsun degli Anni 80 e 90, e in parte anche dell'ultimo decennio. Se non si considera quanto su detto cade tutto il discorso della difesa personale che i miei interlocutori considerano, cioè la difesa da un aggressione, non incontro contro pugili e judoka su un ring di pugilato o un tatami da judo. Altrimenti autodifesa coinciderebbe con sport da combattimento e tanto varrebbe studiare quello. Ma sappiamo anche che così non è, benché lo sport rinforzi sia fisicamente che tecnicamente. 

E' altresì chiaro che le tecniche che si vedono in un contesto competitivo sportivo non saranno sempre pulite. A maggior ragione potrebbero non esserlo nella realtà di un'aggressione. Allora perché ci si domanda se le tecniche del wing chun, nel corso di un'aggressione, usciranno pulite o no? Che vuol dire pulite? Si intende ineccepibili e riconoscibili tecnicamente o piuttosto un tirare alla carlona che si nasconde dietro la scusa dei principi? Oppure moralmente pulite (praticamente i soliti stereotipi dei calci nei testicoli e le dita negli occhi)? 

Poiché sporco è stato individuato nel corso della conversazione come equivalente più o meno di sleale (apparizione improvvisa di armi più o meno improvvisate, aggressione di più persone e così via...), si è passati a discutere dell'art. 52 del codice penale che recita: "Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere (2) un diritto proprio od altrui (3) contro il pericolo attuale (4) di un'offesa ingiusta (5), sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa (6) (7) [55]". 

Ora, io non mi occupo di autodifesa e i miei pensieri sono solo quelli del normale cittadino che medita su cosa potrebbe succedere e casualmente pratica anche un'arte cinese tradizionale che si colloca nell'ambito del Wu-Shu. Da praticante di Wu-Shu ho pensato che probabilmente se gli sport da combattimento sono in una condizione migliore, in termini di efficacia, rispetto alle discipline tradizionali, è perché 'art. 52 non trova spazio nel campo in cui loro applicano le tecniche (ring, tatami, gabbie), che seppur di per sé non sono mortali (nel senso che non si ricerca la morte dell'avversario attraverso il loro uso, peraltro regolato per l'incolumità dei contendenti), possono provocare senz'altro la morte di qualcuno. 

Questo perché fare del male e casualmente uccidere su un ring non è omicidio, fondamentalmente. Se dovesse succedere una cosa del genere, è chiaro che sarebbe facile per l'omicida dire che non fosse sua intenzione, cosa che, di fatto, a meno di una personalità malata, è anche vera! 

Ora, ci immaginiamo che evoluzione avrebbero mai potuto avere le discipline tradizionali, dal Muay thai, alla Boxe birmana, al Wu-Shu, al Ju Jutsu, alla Capoeira, alla Boxe del Maestro Carmine, se avessero dovuto preoccuparsi dei risvolti legali della loro abilità di autodifesa? Giustamente mi sono stati citati casi in cui in sede di giudizio la persona che si è difesa è stata condannata a una pena per eccesso di legittima difesa.

 Io che comunque non pratico per autodifesa devo rispondere sul senso dello studio del Wu-Shu, in particolare del Wing Chun, in una tale ottica, tenendo presente l'art. 52. Questo perché agli occhi del grande pubblico il praticante di Wing Chun o di queste barbare e demodé arti tradizionali combatte con tecniche sporche, e sembra  he dovrebbe giustificarsi per questo, come se un normale diretto pugilistico o il pugno di mister nessuno non potesse avere conseguenze diciamo disastrose. 

Questo, a sua volta, perché la ricerca delle arti tradizionali va nel senso della massima efficienza con il minimo sforzo (sarebbe anche il caso dei moderni sistemi di difesa personale) e. piuttosto che accrescere la potenza di un'arma secondaria come il pugno, per renderla in grado di provocare enormi danni, preferisce la ricerca di un metodo di movimento che intrinsecamente, quasi indipendentemente dalla forza, è di per sé danneggiante, al di là della forza impiegata. 

Proprio per salvarmi da un'aggressione (evitando di conseguenza il problema dell'art. 52) fuggo e considero fuggire la prima scelta. Ma se combatto, vuol dire che non ho scelta, e devo dimenticarmi di quell'articolo. Chiaramente devo saper distinguere dalla minaccia intimidatoria e la rissetta, da un combattimento improvviso e mortale. Ma questa è una abilità soggettiva di fiutare il pericolo...

Certo che mentre combatto non posso far limitare la mia tecnica da un art. 52. Il mio aggressore, non il bulletto ovviamente, non userà tecniche "pulite". Se ci si allenasse solo in quell'ottica, si confonderebbe il confronto di strada con quello sportivo, duro ma regolamentato. Naturalmente, proprio data la pericolosità intrinseca delle tecniche antiche, è ovviamente più difficile allenarsi in sicurezza. Ma se si evita di riflettere su questo tema, allora tanto vale fare sport. Jigoro Kano risolse facendo fare un randori non troppo pericoloso, che permettesse lo sviluppo di determinate attitudini, riservando le pericolose tecniche antiche (che si sarebbero giovate della attitudini sviluppate in randori) allo studio tramite kata

In seguito il randori, con l'accresciuta importanza delle competizioni, divenne fine del judo, piuttosto che mezzo di studio per la comprensione dello stesso. Attenzione, voglio far notare che certe metodiche sportive possono comunque aiutare il marzialista e viceversa. Siamo costretti ad osservare la confusione che attanaglia il Wing Chun (arte tradizionale senza aspetto competitivo, più simile all'idea di difesa personale), ma che non regna nel (tradizionale?) Tae Kwon Do (arte marziale il cui studio e il cui sviluppo ricalca l'applicabilità in un regolamento innanzitutto), perché il Tae Kwon Do (ma anche il Judo, il Karate, il Muay thai) ha già fatto la sua scelta sportiva chiara e definita, mentre non è facilmente definibile un'arte che voglia votarsi al "tutto quello che potrebbe essere (qualcuno la chiama realtà)". 

La realtà è che anche un bambino può ammazzarti con un coltello in mano (esagero per farmi capire), non conta quanto forte tu possa tirare un calcio. Non vale a nulla pensare in termini di proporzioni di forze o di proporzionalità, perché una volta che il bambino tira fuori il coltello lui è più forte di te, e tu magari sei vicino e la coltellata te la becchi comunque. 

Il problema nasce dal fatto che, come il mio interlocutore ha detto, come ovvio in tempo di pace, le discipline si sono sportivizzate o, consentitemi il neologismo cacofonico, palestrizzate. L'amico ha aggiunto: "Vedremo cosa diventerà il krav maga quando finirà la guerra tra israeliani e palestinesi... Scommettiamo che inventeranno un krav sportivo da ring? Anzi no, esiste già il cardio krav...". Avrei dovuto rispondergli che gli israeliani sono in guerra e noi non possiamo fare krav maga, perché il contesto sociale è diverso e da noi il krav maga nel momento in cui lo apprendiamo è già probabilmente palestrizzato". 

Da quando si sono orientate al Budo, le discipline sono diventate o sport o religioni/filosofie. Ma se cerchiamo nel loro DNA, troviamo sempre qualcosa di importante ovvero l'essenziale. Nel momento in cui queste discipline hanno (per esempio) cercato l'immobilizzazione piuttosto che la vittoria per annientamento dell'avversario hanno cominciato a snaturarsi, almeno in parte. 

Mentre Ueshiba (un santone o un marzialista?) quando immobilizzava sapeva perfettamente qual era lo scopo ed edulcorava la tecnica in una immobilizzazione (in pratica lui non fece altro che, come Kano, permettere di allenare con una certa intensità delle tecniche cruente, togliendo uno o due elementi per permettere un loro allenamento al massimo, un po' con l'idea dello sparring moderno, ma pensando sempre in termini di tecnica assoluta...) o in una proiezione, i successori hanno pensato a tecniche fine a se stesse, dove l'idea della sopravvivenza si perdeva, mancando completamente il senso voluto da Ueshiba. 

In teoria la proiezione o l'immobilizzazione non erano solo proiezioni o immobilizzazioni. Erano il modo per sviluppare senza eccessivi rischi alcuni passaggi fondamentali per l'atemi jutsu o, in termini moderni, lo striking, un po' come le sezioni di chi sao che sono un concatenamento in cui entrambi vogliono colpirsi, ma si annullano vicendevolmente senza però arrestare il flusso dinamico. Anche il judo sportivo, quando si è orientato solo sulle proiezioni e immobilizzazioni, dimenticando che queste erano un modo per allenare altro in sicurezza, ha perso quello spirito. 

Si è passati dall'idea di bloccare a terra in modo da poter colpire l'avversario sotto di noi (modello preda e predatore), alla sottomissione in termini di tempo, come si fa in dimostrazioni di forza tra animali della stessa specie che non vogliono uccidersi, ma che vogliono riconosciuto uno status (di campione?), il diritto ad accoppiarsi o il possesso di un territorio, sulla base di pulsioni animali, quindi soggetti alle naturali regole animali, quali siamo. 

Io, però, non mi occupo di difesa personale in senso moderno. Io pratico arti tradizionali per recuperare una scienza del corpo che si è perduta. Questa scienza però può essere usata a quei fini. L'obbiettivo è studiare la "massima efficienza con il minimo sforzo", attraverso il miglior uso del corpo e della mente. Il mio contributo al discorso autodifesa è però, e lo ripeto, il seguente: "quest'art. 52 può essere paralizzante". 

Quel che voglio dire è che si può sviluppare una tecnica "semplice" e secondaria, fino a renderla efficacissima e eventualmente mortale, o almeno debilitante e molto dolorosa. Ma allora perché non studiare tecniche intrinsecamente debilitanti solo per soddisfare l'art. 52? E' un paradosso interessante... Perché un judoka o un karateka o un praticante di Wing Chun possono trovarsi a fare qualcosa che non sia valido in termini di autodifesa? Cosa distingue l'autodifesa dalle versioni sbiadite o anche efficaci sportivamente delle arti tradizionali? 

Prendiamo il judoka. Se due judoka si incontrano, ragionano con l'idea di trovarsi davanti ad un esperto in un settore del combattimento, quello della lotta. Nonostante ci siano i momenti in cui possono colpirsi, per motivi di regolamento ignorano questa possibilità e pensano di avere tutto il tempo per settare e quindi forzare la proiezione, con un avversario che non gli regalerà niente per farsi proiettare. 

Prendiamo il pugile (o il karateka sportivo, a contatto pieno o meno), il quale in un arco di tempo che sa di avere per preparare il suo gancio sinistro o il cross destro, fa tutta una serie di azioni per arrivarci, ma ogni azione di per sé spesso non è efficace, se non in funzione del colpo che sta settando, ma che potrebbe non arrivare mai a segno. 

Prendiamo il praticante di Wing Chun in alcuni dei suoi attacchi standard, tipo Pak Sao - Yeung Kyun o Lap Sao - Yam Kyun, dove si parte con l'idea che l'altro abbia una guardia tale per cui puoi fare questi giochetti, e vediamo che ancora una volta lap e pak sono settaggi che valgono in una realtà standardizzata di allenamento e non vengono usati secondo necessità, ma in ossequio a un tentativo di preconfezionare un combattimento da strada (almeno nelle interpretazioni moderne). 

Io, ripeto per l'ennesima volta, pur non interessandomi di autodifesa, come civile che pratica un'arte tradizionale, penso che ogni azione deve essere efficace qui ed ora e non buona solo per settare qualcos'altro, con la tipica mentalità del "ho tutto il tempo che voglio", poiché in queste arti è buona solo la prima! E allora, poiché anche il judo e la boxe sono state per un periodo arti tradizionali, le tecniche restano le stesse (magari la sportivizzazione ha ridotto l'arsenale al socialmente consentito), ma non richiedono un settaggio, perché vengono usate solo secondo opportunità e buchi offerti dall'avversario, altrimenti le devi forzare e usare una forza che potresti non avere in relazione a chi ti sta di fronte. 

 La differenza quindi è in primis la mentalità e da questa poi ricavi il materiale dell'allenamento. Quando si dice che bisogna togliere per arrivare all'essenza (questo è il ragionamento di chi cerca l'autodifesa essenziale, ma anche del tradizionalista), secondo me ci si riferisce alla tecnica, ma molto di più alla mentalità che la genera, alle motivazioni psicologiche di un gesto. 

 Dunque nell'arte tradizionale del Judo, il momento del contatto diventa quello del colpo o della proiezione, senza veramente lottare. Nel pugilato (o nel karate sportivo) diventa colpire, senza predisporsi mentalmente a uno scambio (il vero "uccidi con un colpo solo", che non vuol dire riuscirci, ma significa solo che non si perde tempo a fare manovre che esulano da questo scopo). Nel wing chun non si fa pak sau per poi tirare il pugno. 

In definitiva, nell'arte tradizionale come nella difesa personale moderna, non esiste dunque il "fai questo per poi...", perché non c'è il poi. Non c'è seconda chance. Il qui ed ora, la bellezza di questa pratica. E la ricerca di una forma di saggezza che ci permetta di affrontare l'istante. Al meglio delle nostre possibilità e senza vincoli che non siano la nostra vera natura. In altre parole, lo spirito del Chan.

Pasquale Mazzotta